Chi sei e di che cosa ti occupi?
Sono architetto e inventore.
Lavoro a cavallo tra la ricerca e la pratica professionale. Sono titolare dello studio di progettazione Caterina Tiazzoldi / Nuova Ordentra e direttore della Non Linear Solutions Unit della facoltà di architettura della Columbia University.
In un mondo che cambia continuamente c’è sempre più bisogno di progettazione.
Bisogna essere capaci di capire e di rispondere in maniera creativa alle trasformazioni della società contemporanea e pertanto al tipo di spazi che riflette il nuovo modo di vivere. Per questo motivo negli anni ho messo a punto il processo di ibridazione combinatoria che permette di creare nuove specie di spazi mantenendo tuttavia un grande controllo sul percorso progettuale. È necessario unire allo stesso tempo una visione di insieme e una precisione di strumenti che permetta di approcciarsi ai problemi in maniera specifica.
Per esempio il progetto del coworking Toolbox, con cui abbiamo vinto il premio Architetture Rivelate e che è stato finalista al premio Renzo Piano, era partito dalla ristrutturazione di un classico ufficio anni ‘70. Lavorando con i miei clienti siamo arrivati alla definizione di una nuova tipologia di ufficio che unisse le qualità di uno spazio di lavoro istituzionale tipo corporate con quelle di un coworking.
Tutti i progetti su cui lavoro richiedono di definire nuove frontiere nell’utilizzo dello spazio e delle città in cui viviamo. Onion Pinch, nominato al Cooper Hewitt Museum National Design Award, trasforma una stazione della metropolitana di Lisbona in un parco giochi per bambini: un piccolo intervento che cambia la relazione fra spazio pubblico e spazio domestico.
Quali strumenti usi per il tuo lavoro?
Il mio lavoro si basa sulla ricerca di nuove tipologie di spazio e di soluzioni tecniche per creare nuove frontiere e nuovi organismi spaziali.
In particolare, il mio metodo di indagine si basa sul metodo dell’ibridazione combinatoria, che deriva dal mondo delle scienze della complessità. Ho lavorato con molti centri di ricerca sulle scienze della complessità, come per esempio il Santa Fe Institute per capire come avviene l’ibridazione nella metodologia dei complex adaptive systems.
Il metodo consiste nel creare nuove tipologie spaziali o funzionali a partire dall’analisi e manipolazione delle proprietà dello spazio e della qualità che si vuole ottenere. Proprio come nel caso di un algoritmo genetico, inizialmente si isolano i fenotipi degli spazi sui quali si vuole lavorare. Poi li si ricombina gli uni con gli altri sulla base di una serie di relazioni associative, a seconda delle proprietà dello spazio che si vogliono enfatizzare.
In questo modo è possibile avvicinarsi a temi nuovi creando nuove combinazioni. È possibile studiare molte soluzioni che permettono di avere una buona comprensione di un progetto, anche se del tutto nuovo. Creare nuove specie di architettura e di design. Mettendo in relazione le caratteristiche di uno spazio con quelle di un altro.
Quale software?
Utilizzo un po’ di tutto: Maya, Rhino, Grasshopper, 3DS Max, Photoshop, Autocad, Excel, InDesign, Illustrator, Premiere.
Il cuore del mio lavoro sono i software associativi: date le proprietà spaziali (lunghezza, distanza, colore, texture) in relazione al tipo di spazio che si vuole ottenere, si ottiene una gamma di varianti che mette in relazione la variazione di un dato a un tipo di performance dello spazio.
Per esempio l’installazione Instant Installation che abbiamo fatto per la rivista interni per la NY Design week e presentato al Memphis Art Museum può essere considerata come un ibrido fra un prodotto di design e una architettura. Realizzato in fili di lattice e rotaie prefabbricate a controllo numerico, il progetto è stato concepito per creare percorsi e spazi raccolti in ambienti più aperti (sala riunione o sala vip all’interno di una fiera, uno spazio espositivo, un piccolo spazio urbano). È un prodotto di design perché può essere confezionato, ordinato e spedito. Per lavorare su questa idea progettuale, abbiamo estratto le singole variabili di progetto. Ci siamo concentrati su alcune proprietà quali lo spessore dei fili di lattice, la lunghezza e la porosità della fibra, la tipologia di intreccio derivabile dalla geometria lineare, la spaziatura fra un filo e l’altro, i colori. Abbiamo analizzato come queste variabili potessero essere combinate creando diversi tipi di spazialità. Per procedere abbiamo sviluppato una definizione di Grasshopper che permettesse di controllare l’intreccio dei fili, il loro spessore, colore e la distribuzione dei fori su un binario in modo tale da garantire la precisione della realizzazione.
Nel caso dell’impianto mini-eolico >Whirlers, che stiamo prototipando, il software è stato concepito per adattare la dimensione delle singole turbine ai rilievi del paesaggio ed alla quantità di vento presente in una zona specifica del parco.
Per il progetto Illy Shop abbiamo sviluppato un software associativo (sempre via Grasshopper) che permetteva di gestire la relazione fra lo spessore degli espositori e dimensione dei prodotti.
Nell’installazione interattiva Social Cave, che abbiamo realizzato come ospiti d’onore in occasione del 50° anniversario del Salone del mobile di Milano, abbiamo lavorato sulla relazione fra socializzazione fisica e virtuale. Per questo motivo abbiamo realizzato uno script che cancellasse automaticamente dal modello tridimensionale alcuni dei poligoni in modo da creare degli assi visivi diretti che si volevano creare fra gli utenti.
Questo approccio si può applicare anche alla fase di messa a punto di un nuovo concept o di una nuova tipologia di spazio creando quindi situazioni ad hoc per ogni cliente: come citavamo precedentemente nell’esempio di Toolbox abbiamo creato un ibrido fra le proprietà spaziali di un coworking e quelle di un centro uffici tradizionale. Per Onion Pinch abbiamo creato un ibrido fra una stazione metropolitana e un parco giochi, lavorando con il tema della giocosità interpretata come flessibilità alle pressioni del corpo umano.
Come miglioreresti quello che usi per lavorare?
Ogni software va bene per qualcosa di diverso e non potrebbe essere altrimenti: vado sempre avanti e indietro da uno all’altro. Fai una prova, verifichi, torni indietro. Quindi i procedimenti di import export avanti e indietro sono fondamentali. A volte bisogna fare dei percorsi strani: per esempio a volte devi passare da vecchie versioni autocad per poter passare da rhino a max. I dxf fanno riferimento a versioni diverse quindi questi passaggi sono sempre un po’ un terno al lotto. Bisogna conoscere o inventarsi mille tricks.
L’altra cosa che mi piacerebbe migliorare sono i metodi di archivio delle definizioni dei software associativi. I software evolvono molto in fretta e raramente le nuove versioni sono compatibili con i vecchi file. Mi è capitato di perdere materiale.
Questo problema si manifesta anche lavorando con artigiani nelle lavorazioni a controllo numerico. A volte ci sono versioni diverse di uno stesso software che non reggono le stesse matematiche.
Ma complessivamente non posso lamentarmi!